venerdì 31 maggio 2013

Corpus Domini

Cari fratelli e sorelle, nel Vangelo che abbiamo ascoltato, c’è un’espressione di Gesù che mi colpisce sempre: «Voi stessi date loro da mangiare» (Lc 9,13). Partendo da questa frase, mi lascio guidare da tre parole: sequela, comunione, condivisione. Anzitutto: chi sono coloro a cui dare da mangiare? La risposta la troviamo all’inizio del brano evangelico: è la folla, la moltitudine. Gesù sta in mezzo alla gente, l’accoglie, le parla, la cura, le mostra la misericordia di Dio; in mezzo ad essa sceglie i Dodici Apostoli per stare con Lui e immergersi come Lui nelle situazioni concrete del mondo. E la gente lo segue, lo ascolta, perché Gesù parla e agisce in modo nuovo, con l’autorità di chi è autentico e coerente, di chi parla e agisce con verità, di chi dona la speranza che viene da Dio, di chi è rivelazione del Volto di un Dio che è amore. E la gente, con gioia, benedice Dio. Questa sera noi siamo la folla del Vangelo, anche noi cerchiamo di seguire Gesù per ascoltarlo, per entrare in comunione con Lui nell’Eucaristia, per accompagnarlo e perché ci accompagni. Chiediamoci: come seguo io Gesù? Gesù parla in silenzio nel Mistero dell’Eucaristia e ogni volta ci ricorda che seguirlo vuol dire uscire da noi stessi e fare della nostra vita non un nostro possesso, ma un dono a Lui e agli altri. Facciamo un passo avanti: da dove nasce l’invito che Gesù fa ai discepoli di sfamare essi stessi la moltitudine? Nasce da due elementi: anzitutto dalla folla che, seguendo Gesù, si trova all’aperto, lontano dai luoghi abitati, mentre si fa sera, e poi dalla preoccupazione dei discepoli che chiedono a Gesù di congedare la folla perché vada nei paesi vicini a trovare cibo e alloggio (cfr Lc 9,12). Di fronte alla necessità della folla, ecco la soluzione dei discepoli: ognuno pensi a se stesso; congedare la folla! Quante volte noi cristiani abbiamo questa tentazione! Non ci facciamo carico delle necessità degli altri, congedandoli con un pietoso: “Che Dio ti aiuti”. Ma la soluzione di Gesù va in un’altra direzione, una direzione che sorprende i discepoli: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma come è possibile che siamo noi a dare da mangiare ad una moltitudine? «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». Ma Gesù non si scoraggia: chiede ai discepoli di far sedere la gente in comunità di cinquanta persone, alza gli occhi al cielo, recita la benedizione, spezza i pani e li dà ai discepoli perché li distribuiscano. È un momento di profonda comunione: la folla dissetata dalla parola del Signore, è ora nutrita dal suo pane di vita. E tutti ne furono saziati, annota l’Evangelista. Questa sera, anche noi siamo attorno alla mensa del Signore, alla mensa del Sacrificio eucaristico, in cui Egli ci dona ancora una volta il suo corpo, rende presente l’unico sacrificio della Croce. E’ nell’ascoltare la sua Parola, nel nutrirci del suo Corpo e del suo Sangue, che Egli ci fa passare dall’essere moltitudine all’essere comunità, dall’anonimato alla comunione. L’Eucaristia è il Sacramento della comunione, che ci fa uscire dall’individualismo per vivere insieme la sequela, la fede in Lui.

lunedì 27 maggio 2013

Comunione.. chi la sa?

(AGI) - CdV, 26 mag. - Ha fatto un riferimento scherzoso alla finale di Coppa Italia tra Roma e Lazio, Papa Francesco, nel suo dialogo con i bambini della parrocchia romana dei santi Elisabetta e Zaccaria, al quartiere Prima Porta, periferia Nord della Capitale, dove ha compiuto oggi la sua prima visita pastorale. "Questa e' difficile - ha detto ai 44 ragazzi della prima comunione dopo le altre domande sul catechismo che hanno caratterizzato la sua omelia di oggi - e chi la sa vince il derby: Dio ci aiuta, ci guida, ci insegna a andare avanti, e anche Gesu' ci da' la forza per camminare, ci sostiene nelle difficolta' e anche nei compiti della scuola, ci da' la forza, Come?". "Nella comunione - ha poi suggerito la risposta lo stesso Pontefice - ci da' la forza, ci aiuta con la forza, Lui viene a noi, ma quando dite 'ci da' la comunione', cosa e' la comunione?' E' pane o non e' pane, sembra pane, non e' proprio pane, e' il corpo di Gesu', Gesu' viene nel nostro cuore, e pensiamo a questo tutti'". .

domenica 26 maggio 2013

Filippo Neri compatrono di Roma

A Firenze il padre esercitava la professione di notaio ma, nel 1524, decise di intraprendere la strada dell'alchimia. Filippo aveva tre fratelli: Elisabetta, nata nel 1518, ricordata per aver testimoniato nel processo di canonizzazione, Antonio, morto poco dopo la nascita e  la primogenita Caterina, nata nel 1513 che, dopo il matrimonio, ebbe due figlie, entrambe in seguito divenute monache.
Nel 1520 Filippo Neri perse la madre. Il padre decise così di risposarsi con Alessandra.
Durante gli anni di studio presso il convento di San Marco, il giovane Filippo Neri si appassionò a due testi che avrebbero influenzato il suo successivo apostolato: le Laudi di Jacopone da Todi, che in seguito egli fece musicare, e le Facezie del Pievano Arlotto, un libro umoristico scritto da un sacerdote fiorentino. Tra le sue meditazioni quotidiane figura l'Autobiografia di santa Camilla da Varano, come mostra la copia conservata alla Biblioteca Vallicelliana con sue note autografe.
Visse a Firenze fino a 18 anni, quando fu inviato presso uno zio, tale Bartolomeo Romolo, a Cassino (allora chiamato San Germano) per essere avviato alla professione di commerciante. In quegli anni cominciò a sentire la propria vocazione religiosa, così da costruire una piccola cappella in una roccia a picco sul mare denominata "Montagna Spaccata" (ancora oggi visitabile) a Gaeta, dove si recava tutti i giorni per pregare in silenzio. Lo zio, che si era particolarmente affezionato a lui, non avendo eredi, aveva deciso di lasciare al nipote, dopo la morte, tutti i suoi averi (ben 20.000 scudi) che questi però rifiutò per dedicarsi a una vita più umile.
Nel 1534 si recò a Roma come pellegrino ma vi rimase in qualità di precettore, ma ben presto espresse nella preghiera le sue attitudini di mistico e contemplativo. Cominciò a prestare la sua opera di carità presso l'ospedale di San Giacomo (il suo nome infatti compare fra le matricole dei membri della compagnia che regge l'Ospedale) dove molti anni dopo conobbe e strinse amicizia con Camillo de Lellis e nel 1538 venne anche a contatto con Ignazio di Loyola e con i primissimi membri della Compagnia di Gesù.
Secondo la tradizione nel 1544, e precisamente nel giorno della Pentecoste, in preghiera presso le catacombe di San Sebastiano, Filippo Neri fu preda di uno straordinario avvenimento (un'effusione di Spirito Santo) che gli causò una dilatazione del cuore e delle costole, evento scientificamente attestato dai medici dopo la sua morte. Molti testimonieranno di aver visto spesso il cuore tremargli nel petto e che, a contatto con esso, si avvertiva uno strano calore.
In seguito a questa esperienza Filippo abbandonò la casa dei Caccia per ritirarsi a vivere come eremita fra le strade di Roma, dormendo sotto i portici delle chiese o in ripari di fortuna. Spesso lo si vedeva passeggiare per le piazze cittadine vestito con una tonaca munita di cappuccio. Camminando per Campo de' Fiori e nei vicoli di Trastevere incontrava giovani che lo deridevano e beffeggiavano. Egli non si faceva sfuggire l'occasione e, unendosi alla comitiva, la conquistava con la sua simpatia. Iniziava con una barzelletta e con qualche gioco, ma poi si improvvisava predicatore, dicendo: “Fratelli, state allegri, ridete pure, scherzate finché volete, ma non fate peccato!”.
Molti tentavano di farlo cadere, una volta dei giovani scapestrati idearono una raffinata trappola: invitatolo in una casa, vi introdussero donnine di facili costumi. Ma la purezza di Filippo ebbe la meglio. Qualche anno più tardi dovette affrontare lo stesso tipo di tentazione a casa della famosa Cesaria, nota più per la sua bellezza che per le sue “virtù”. Essa volle per gioco scommettere con gli amici che sarebbe riuscita con le sue arti ammaliatrici a farlo capitolare. Fingendosi inferma lo invitò a casa sua per una confessione. Quando Filippo arrivò nella sua stanza la trovò vestita con un indumento così trasparente che niente lasciava alla fantasia. Accorgendosi dell'inganno il santo si diede alla fuga e la donna, scoperta, si vendicò tirandogli dietro un pesante sgabello. Forse è per questa esperienza che Filippo dirà in seguito ai suoi discepoli che “le tentazioni si vincono resistendo ad esse, ad eccezione di quelle carnali, dove è solo fuggendo che si hanno gloriose vittorie”.
In amore vince chi fugge..
Nello stesso periodo, si occupò degli infermi, abbandonati a sé stessi o affidati a pochi volontari, negli ospedali di San Giovanni e Santo Spirito nonché dei poveri nella confraternita della Carità, istituita da Clemente VII e nell'oratorio del Divino Amore. Essendosi fatto sempre più intenso il suo apostolato nei confronti dei bisognosi, tanti dei quali costretti a dormire in rifugi di fortuna, decise su consiglio di Persiano Rosa, suo padre spirituale, di fondare la cosiddetta Confraternita della Trinità, creata appunto per accogliere e curare viandanti, pellegrini e povera gente dei borghi romani. Inizialmente composta da quindici uomini, attratti dai discorsi da lui tenuti nella chiesa di San Salvatore in Campo, e installata nella casetta dello stesso Persiano Rosa, diede un grande contributo a favore dei pellegrini, in particolare nell'Anno Santo del 1550 (sebbene quell'anno venisse presa a pigione una casa più grande), tanto da ricevere da allora il soprannome di confraternita "dei pellegrini", e poi in seguito anche "dei convalescenti" per il suo soccorso nei confronti degli infermi della città.
Come sacerdote divenne famoso nell'esercizio del sacramento della confessione come fonte di dialogo con i "penitenti"; secondo testimoni oculari Filippo Neri ascoltava il pentimento dei suoi fedeli dall'alba fino a mezzogiorno, ora in cui celebrava la messa, sebbene non fosse raro trovare fedeli bisognosi anche in casa o perfino ai piedi del suo letto, dove egli ugualmente confessava in casi di necessità. Ciò suscitò invidie e gelosie, in particolare in due monaci (di cui si ignorano i nomi) e nel medico Vincenzo Teccosi, i quali dimoravano nella stessa San Girolamo. Seguirono una serie di screzi e ingiurie, i primi due erano, ad esempio, soliti beffeggiare il sacerdote mentre si preparava per la messa, o nascondendogli i paramenti, perfino le scarpe, o facendo in modo che ne usasse di logori. La cordialità, e soprattutto la pazienza di Filippo, finirono poi per conquistare i suoi tre avversari, uno dei due monaci entrò perfino nell'oratorio mentre il Teccosi, prima di morire, lasciò tutto in eredità a quello che un tempo era il suo peggior nemico, il quale non prese con sé che un ricordo (un orologio) cedendo tutto il resto ai nipoti del defunto.
Da questi dialoghi e da questi incontri nacque il primo nucleo della sua istituzione, <b>l'Oratorio</b>: il primo vero e proprio, un granaio sopra la navata della chiesa di San Girolamo della Carità.

L'11 ottobre 1559, Filippo Neri perse il padre, Francesco, e, dopo aver ricevuto l'eredità che gli spettava, preferì cederla alla sorella Caterina. In quegli anni il santo conobbe un altro importante personaggio della storia ecclesiastica, il cardinale milanese Carlo Borromeo.
Nel 1564 su pressioni delle comunità fiorentine, papa Pio IV (che sarebbe morto nello stesso anno) affidò a Filippo Neri il controllo della Chiesa di San Giovanni Battista de' Fiorentini che il santo, volendo rimanere a Roma, affidò ai giovani dell'Oratorio divenuti sacerdoti, quali ad esempio Cesare Baronio e Alessandro Fedeli, molto legati al loro padre spirituale.
Nel 1575 il papa Gregorio XIII eresse la Congregazione dell'Oratorio e concesse a questa la chiesa di Santa Maria in Vallicella, che ne divenne la sede. Grazie al suo insegnamento promosse innumerevoli attività: coinvolse nella preghiera e nella lettura della Bibbia uomini comuni, artisti, musicisti, uomini di scienza; fondò una scuola per l'educazione dei ragazzi.
In tempi nei quali la pedagogia era autoritaria e spesso manesca, Neri si rivolgeva ai suoi allievi (che erano, si direbbe oggi, ragazzi di strada) con pazienza e benevolenza: ancora oggi si ricorda la sua esortazione in romanesco: "<b>State bboni (se potete</b>...)!". Un'altra sua celebre frase, un'imprecazione di impazienza poi attenuata dall'augurio della grazia del martirio: "Te possi morì ammazzato... ppe' la fede!".
Gli anni che vanno dal 1581 al 1595, anno della morte, furono segnati da terribili malattie, guarigioni e ricadute continue. Preoccupato per il proprio destino scrisse per ben tre volte il proprio testamento. Alla comunità venne concessa intanto una nuova sede, l'Abbazia di San Giovanni in Venere e la possibilità di fondare un oratorio persino a Napoli. Fiaccato dalle malattie, Filippo Neri soffrì parecchio a causa di una terribile carestia che decimò alcuni membri della sua comunità oratoriana. Unico sollievo di quel periodo, nel 1590, il poter assistere, nella chiesa di Sant'Adriano al Foro, alla traslazione dei corpi di alcuni martiri. È da ricordare infatti che la testimonianza dei martiri era motivo di commozione per il santo fiorentino.
Seguendo i consigli di Filippo Neri, papa Clemente VIII decise di riconciliarsi con Enrico IV di Francia, evento di notevole portata nella storia della Chiesa cinquecentesca. Il pontefice, quasi per ringraziare il santo per il suo aiuto, prese con sé alcuni fra i suoi fedelissimi e decise di nominarlo cardinale, ma questi rifiutò la carica, dicendo, verso il cielo: “Paradiso, paradiso”. Nell'aprile del 1595 Filippo Neri venne colpito ancora più gravemente dalla malattia che lo affliggeva, tanto da non poter più modificare il proprio testamento.
Federico Borromeo, suo fedele amico, si recò a Roma per somministrargli personalmente l'eucarestia. Il santo, come lo stesso Borromeo dichiarò, benché moribondo dimostrava ancora una forza d'animo eccezionale. Il 23 maggio si riprese miracolosamente e poté officiare così la messa del Corpus Domini due giorni dopo, recitata “come cantando”. Dopo aver celebrato la messa sembrò quasi ai suoi fedeli che egli fosse come guarito, poiché continuava a scherzare e consigliare come suo solito. Verso le tre del mattino di quella stessa notte, tra il 25 e il 26 maggio, colpito da una grave emorragia, dopo aver benedetto la propria comunità Filippo Neri morì, quasi sorridendo nel momento del trapasso.
Filippo è stato senza dubbio uno dei santi più bizzarri della storia della Chiesa, tanto da essere definito "santo della gioia" o "buffone di Dio". Colto, creativo, amava accompagnare i propri discorsi con un pizzico di buon umore. Confessava con la stessa discrezione e la stessa bonarietà sia poveri che ricchi, sia principi che cardinali, dando a volte penitenze alquanto bizzarre, sicuro che, dopo aver fatto una simile figuraccia, il penitente non avrebbe più provato a compiere quel peccato. Vi è ad esempio un simpatico aneddoto che narra come a una donna, che aveva il vizio di sparlare degli altri, fu comandato dal santo di spennare per strada una gallina morta e poi di raccoglierne tutte le penne volate via. Alla richiesta del perché, da parte della donna, rispose che questo era come il suo sparlare, le sue parole si spargevano ovunque e non si potevano raccogliere più. Si offriva a tutti con generosità e soprattutto con un buon sorriso, tanto da essere definito dai contemporanei come "Pippo Buono". Questo è il quadro che ci danno di lui i suoi contemporanei, gli uomini che lo conobbero di persona.
Filippo Neri amava inoltre vivere all'aperto per sentirsi così in maggior contatto con Dio e le sue creature. Amava trascorrere le ore osservando il paesaggio romano dalla terrazza della sua stanzetta. A San Girolamo teneva con sé una gatta, un cane bastardino bianco a chiazze rosse, chiamato dal santo "Capriccio", che aveva deciso di non tornare più a casa per vivere nell'Oratorio. Il santo possedeva inoltre alcuni uccellini che, durante la giornata stavano in giro per la città, alla sera tornavano da Filippo, che li accudiva e gli dava di che cibarsi, e al mattino lo svegliavano con il loro canto.
L'insegnamento di Filippo Neri si può riassumere in quattro punti: una singolare tenerezza verso il prossimo, la prevalenza delle mortificazioni spirituali, in particolare mortificazioni contro la vanità su quelle corporali, allegria e buon umore per potenziare le energie spirituali e psichiche e infine la semplicità evangelica, di cui lui fu primo testimone. Durante le preghiere del suo Oratorio, Filippo Neri amava fare piccoli intermezzi cantati, così da rendere più piacevole la lettura del vangelo e, di conseguenza, l'incontro con Dio. Egli stesso amava cantare alcuni sonetti scritti da lui. L'Oratorio divenne così anche un laboratorio musicale perché le laudi si trasformarono da monodiche a composizioni a più voci con l'accompagnamento di uno strumento musicale.
Filippo Neri soleva riunire nel proprio Oratorio non solo i poveri figli della strada ma anche giovani di famiglia benestante, e persino figli di principi. Fra di essi vi era il quattordicenne Paolo, figlio del principe Fabrizio, della famiglia dei Massimo. Il 16 marzo 1583 il ragazzo, dopo una lunga malattia, morì. Padre Filippo, che avrebbe voluto assisterlo negli ultimi istanti, arrivò troppo tardi. Non poteva fare altro che raccogliersi in preghiera. Ma dopo qualche minuto fra lo stupore generale la sua voce risuonò sul brusio della camera: chiamava il ragazzo quasi volesse destarlo dal sonno. Paolo riaprì gli occhi e cominciò a confidarsi con il santo.
A un certo momento Filippo gli domandò se fosse morto volentieri; e lui rispose di sì, perché avrebbe raggiunto in cielo la sorella e la madre. "E allora va' in pace" esclamò il sacerdote mentre il ragazzo chiudeva gli occhi "e che sii benedetto e prega Dio per me"; poi, come narrano le testimonianze dell'epoca, riportate nel processo di canonizzazione del Santo, Paolo "subito tornò di novo a morire". La camera del miracolo, al secondo piano del Palazzo Massimo alle Colonne, che si affaccia sull'attuale Corso Vittorio Emanuele II, venne successivamente trasformata nella cappella, visitabile ogni anno nella ricorrenza dell'avvenimento.
Dopo la sua morte ebbe subito fama di santità presso i fedeli: Santo della gioia e Apostolo di Roma sono alcuni appellativi attribuitigli dai devoti.
Viene ricordato, soprattutto a Roma, per aver istituito (nel giorno di giovedì grasso del 1552 in aperta opposizione ai festeggiamenti pagani del Carnevale) il cosiddetto Giro delle Sette Chiese, un pellegrinaggio a piedi per le sette chiese principali della città: basilica di San Pietro in Vaticano, basilica di San Paolo fuori le mura, basilica di San Giovanni in Laterano, basilica di San Lorenzo, basilica di Santa Maria Maggiore, basilica di Santa Croce in Gerusalemme, basilica di San Sebastiano. Il Giro delle Sette Chiese è un pellegrinaggio tuttora praticato dai fedeli.
Fu proclamato santo nel 1622 e, in seguito, è stato dichiarato compatrono di Roma. Nonostante le sue reliquie siano in moltissime chiese, le sue spoglie sono venerate nella cappella della chiesa di Santa Maria in Vallicella dal 1602. La sua memoria liturgica coincide, com'è tradizione, con il giorno della sua morte: il 26 maggio.
Filippo Neri è anche compatrono della città di Manfredonia, insieme a san Lorenzo Maiorano, la patrona Maria SS di Siponto; di Gravina in Puglia, per volere del cardinale Vincenzo Maria Orsini poi Papa Benedetto XIII; patrono di Gioia del Colle in provincia di Bari e di Candida in Irpinia. È anche patrono di Tursi in provincia di Matera è patrono di Guardia Sanframondi in provincia di Benevento e patrono secondario di Veglie (Lecce). È inoltre compatrono di Venezia. Anche in Sardegna, nel grandioso duomo di Sassari, è venerato nell'altare a lui dedicato ed è patrono della con congrega che fin dal primo Settecento riunisce i canonici turritani sotto il suo nome. La prima chiesa al mondo dedicata a san Filippo Neri fu eretta nel 1636 a Carbognano (Viterbo) da Orazio Giustiniani, prete dell'oratorio della congregazione fondata dal Santo e poi cardinale. In Capitán Pastene, città fondata nella Regione dell'Araucania, Cile, da emigrati italiani provenienti da Pavullo, Emilia Romagna, l'unica chiesa esistente venne consacrata a San Filippo Neri.
Nato il 21 luglio 1515 a Firenze muore a Roma circondato dai suoi alle due del mattino del 26 maggio 1595 e il 12 marzo 1622 viene canonizzato da Gregorio XV.

domenica 19 maggio 2013

Celestino V

Di origini contadine, penultimo di dodici figli, è certo che Pietro da Morrone nacque tra il 1209 e il 1215 (la fonte più accreditata è la cosiddetta Vita C che racconta che aveva 87 anni al momento della morte avvenuta il 19 maggio 1296 e ciò vorrebbe dire, come dicono altre fonti, che sarebbe nato nel 1209) in Molise. La sua nascita è tradizionalmente rivendicata da due comuni: Isernia e Sant'Angelo Limosano (dei quali è patrono). In seguito altre due località ne hanno anch'esse rivendicato i natali: Sant'Angelo in Grotte (frazione di Santa Maria del Molise) e Castrum Sancti Angeli de Ravecanina, nel casertano. Da giovane, per un breve periodo, soggiornò presso il monastero benedettino di Santa Maria in Faifoli, chiesa abbaziale che, tra le dodici della diocesi di Benevento, era una delle più importanti. Mostrò una straordinaria predisposizione all'ascetismo e alla solitudine, ritirandosi nel 1239 in una caverna isolata sul Monte Morrone, sopra Sulmona, da cui il suo nome. Qualche anno dopo si trasferì a Roma, presumibilmente presso il Laterano, ove studiò fino a prendere i voti sacerdotali. Lasciata Roma, nel 1241 ritornò sul monte Morrone, in un'altra grotta, presso la piccola chiesa di Santa Maria di Segezzano. Cinque anni dopo abbandonò anche questa grotta per rifugiarsi in un luogo ancora più inaccessibile sui monti della Maiella, negli Abruzzi, dove visse nella maniera più semplice che gli fosse possibile. Si era allontanato temporaneamente dal suo eremitaggio del Morrone nel 1244 per costituire una Congregazione ecclesiastica riconosciuta da papa Gregorio X come ramo dei benedettini, denominata "dei frati di Pietro da Morrone", che ebbe la sua povera culla nell'Eremo di Sant'Onofrio al Morrone, il rifugio preferito di Pietro, e che soltanto in seguito avrebbe preso il nome di Celestini. Nell'inverno del 1273 si recò a piedi in Francia, a Lione, ove stavano per iniziare i lavori del Concilio di Lione II voluto da Gregorio X, per impedire che l'ordine monastico da lui stesso fondato fosse soppresso. La missione ebbe successo poiché grande era la fama di santità che accompagnava il monaco eremita, tanto che il Papa gli chiese di celebrare una messa davanti a tutti i Padri Conciliari dicendogli che «...nessuno ne era più degno». I successivi vent'anni videro la radicalizzazione della sua vocazione ascetica e il suo distaccarsi sempre più da tutti i contatti con il mondo esterno, fino a quando non fu convinto che stesse sul punto di lasciare la vita terrena per ritornare a Dio. Ma un fatto del tutto inaspettato stava per accadere. Papa Niccolò IV morì il 4 aprile 1292; nello stesso mese si riunì il conclave, che in quel momento era composto da soli dodici porporati.Numerose furono le riunioni dei padri cardinali nell'Urbe, ma sempre tenute in sedi diverse: a Santa Maria sopra Minerva, a Santa Maria Maggiore e sull'Aventino presso il monastero di Santa Sabina. Nonostante ciò, il Sacro Collegio non riusciva a far convergere i voti necessari su nessun candidato. Sopravvenne un'epidemia di peste che indusse allo scioglimento del Conclave. Nel corso dell'epidemia il cardinal francese Cholet fu colpito dal morbo e morì, per cui il Collegio cardinalizio si ridusse ad 11 componenti. Passò più di un anno prima che il Conclave potesse nuovamente riunirsi, perché un profondo disaccordo si era creato circa la sede in cui convocarlo (Roma o Rieti). Finalmente si riuscì a trovare una soluzione sufficientemente condivisa, stabilendo la nuova sede nella città di Perugia; era il 18 ottobre 1293. I porporati però, nonostante le laboriose trattative, non riuscivano ad eleggere il nuovo Papa. Si giunse così alla fine del mese di marzo del 1294 nel frattempo, Pietro del Morrone aveva predetto "gravi castighi" alla Chiesa se questa non avesse provveduto a scegliere subito il proprio pastore. La profezia fu inviata al Cardinale Decano Latino Malabranca, il quale la presentò all'attenzione degli altri cardinali, proponendo il monaco eremita come Pontefice; la sua figura ascetica, mistica e religiosissima, era nota a tutti i regnanti d'Europa e tutti parlavano di lui con molto rispetto. Il Cardinale Decano, però, dovette adoperarsi molto per rimuovere le numerose resistenze che il Sacro Collegio aveva sulla persona di un non porporato. Alla fine, dopo ben 27 mesi, emerse dal Conclave, all'unanimità, il nome di Pietro Angelerio del Morrone; era il 5 luglio 1294. L'elezione unanime da parte del Sacro Collegio di un semplice monaco eremita, completamente privo di esperienza di governo e totalmente estraneo alle problematiche della Santa Sede, può forse essere spiegato dal proposito attendista di tacitare l'opinione pubblica e le monarchie più potenti d'Europa, vista l'impossibilità di eleggere un porporato su cui tutti fossero d'accordo. La notizia dell'elezione gli fu recata da tre vescovi, nella grotta sui monti della Maiella, dove il monaco risiedeva. Sorpreso dall'inaspettata notizia, il monaco, forse anche intimorito dalla potenza della carica, inizialmente oppose un netto rifiuto che, successivamente, si trasformò in un'accettazione alquanto riluttante, avanzata certamente soltanto per dovere d'obbedienza. Appena diffusa la notizia dell'elezione del nuovo Pontefice, Carlo d'Angiò si mosse immediatamente da Napoli e fu il primo a raggiungere il religioso. In sella a un asino tenuto per le briglie dallo stesso Re e scortato dal corteo reale, Pietro si recò nella città di Aquila (oggi L'Aquila), dove aveva convocato tutto il Sacro Collegio. Qui, nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio, fu incoronato il 29 agosto 1294 con il nome di Celestino V. Uno dei primi atti ufficiali fu l'emissione della cosiddetta Bolla del Perdono, bolla che elargisce l'indulgenza plenaria a tutti coloro che confessati e pentiti dei propri peccati si rechino nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, nella città dell'Aquila, dai vespri del 28 agosto al tramonto del 29. Fu così istituita la Perdonanza, celebrazione religiosa che anticipò di sei anni il primo Giubileo del 1300, ancora oggi tenuta nel capoluogo abruzzese. In pratica, Celestino V istituì a Collemaggio un prototipo del Giubileo, e forse sia lui sia Bonifacio si ispirarono alla leggenda della "Indulgenza dei Cent'Anni" di cui si avevano testimonianze risalenti a Innocenzo III. Poi il rifiuto: Io Papa Celestino V, spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza del mio corpo e la malignità di questa plebe, al fine di recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta, abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente al trono, alla dignità, all'onere e all'onore che esso comporta, dando sin da questo momento al sacro Collegio dei Cardinali la facoltà di scegliere e provvedere, secondo le leggi canoniche, di un pastore la Chiesa Universale. Ottorino Gurgo ci parla di Celestino V e gli Spirituali. Dalle profezie di Gioacchino da Fiore alle dieci illuminazioni. Il Papa delle profezie e i suoi rapporti con la setta degli Spirituali: un pontefice che continua a far parlare di sé a distanza di settecento anni. Celestino ha scandalizzato Dante, commosso Silone, esaltato Dario Fo, ispirato il movimento mondiale della New Age. Celestino non sembra avere pace e noi con lui. Le sue spoglie, trafugate ancora nel recente 1988 e restituite dopo pochi giorni, il suo cranio attraversato da un foro, scoperto nel 1888, che ancora fa discutere. Ecco la storia dell'inventore del Giubileo, costretto a fuggire, a piedi, a ottanta anni, lungo i tratturi fino a Vieste, alla ricerca di un impossibile imbarco per l'Oriente. Braccato, imprigionato e ucciso forse... e poi fatto santo... Solo grazie a lui è giunta fino a noi la voce di Angelo Clareno; un misterioso frate esiliato in Tessalia, che là tradusse e importò testi come la Scala del Paradiso di Giovani Climaco. Autore delle Septem Tribolationes, Clareno ha giudato la setta dei francescani Spirituali e ha cercato la Ecclesia Spiritualis di Giocchino da Fiore. Forse la trovò, sul Fiastrone, nei tormentati luoghi della Sibilla Appenninica, vicino al lago di Pilato: un lago a forma d'occhi, che si colorano periodicamente di rosso. Qui negromanti, d'ogni epoca, consacrarono talismani. E tra questi Cecco d'Ascoli, autore dell'Acerba e morto sul Rogo. Una Ecclesia Spiritualis quella di Clareno, simile ai Paradisi del Libero Spirito di Margherita Porete? Simile ai paradisi della Sibilla, abitati di fate secondo la gente? Mille i torrenti sotterranei che attraversano la storia della spiritualità cristiana, ma essi si incontrano e si incrociano a un punto: Celestino V. Egli non sembra avere pace e noi con lui. Chissà cosa voleva dirci e se lo abbiamo veramente capito. Per ciò che riguarda il gran rifiuto, gli storici hanno poi dimostrato che tale formula era già stata utilizzata nelle Decretali da Innocenzo III per le rinunce episcopali, mentre altri hanno ipotizzato che una bolla pontificia, contenente tutte le giustificazioni per un'abdicazione del Papa, fosse stata compilata ad hoc proprio dal cardinal Caetani, il quale, vista l'impossibilità di controllare il Papa come aveva auspicato, impedito in questo da Carlo d'Angiò, intravedeva in questa vicenda la possibilità di ascendere egli stesso al soglio pontificio con notevole anticipo sui tempi che egli aveva preventivato al momento in cui aveva aderito all'elezione di Pietro da Morrone. Di fatto l'unica fonte storicamente certa del sommario contenuto della bolla celestiniana rimane ad oggi la decretale Quoniam aliqui inserita nel Liber Sextus per volontà del suo successore Bonifacio VIII. Undici giorni dopo le sue dimissioni, infatti, il Conclave, riunito a Napoli in Castel Nuovo, elesse il nuovo papa nella persona del cardinal Benedetto Caetani, laziale di Anagni. Aveva 64 anni circa ed assunse il nome di Bonifacio VIII. Caetani, che aveva aiutato Celestino V nel suo intento di dimettersi, temendo uno scisma da parte dei cardinali filo-francesi a lui contrari mediante la rimessa in trono di Celestino, diede disposizioni affinché l'anziano monaco fosse messo sotto controllo, per evitare un rapimento da parte dei suoi nemici. Celestino, venuto a conoscenza della decisione del nuovo papa grazie ad alcuni tra i suoi fedeli cardinali da lui precedentemente nominati, tentò una fuga verso oriente fuggendo da San Germano per raggiungere la sua cella sul Morrone e poi Vieste sul Gargano, per tentare l'imbarco per la Grecia, ma il 16 maggio 1295 fu catturato presso Santa Maria di Merino da Guglielmo Stendardo II, connestabile del regno di Napoli, figlio del celebre Guglielmo Stendardo, detto "Uomo di Sangue". Celestino tentò invano ancora una volta di farsi ascoltare dal Caetani chiedendo di lasciarlo partire, ma il Caetani restò fermo sulle sue decisioni al riguardo. Gli storici narrano che Celestino si rese conto dell'inutilità delle sue richieste e mentre veniva portato via sussurrò una frase rivolta al Caetani che sembrò essere un presagio: « Intrabis ut vulpes, regnabis ut leo, morieris ut canis » « Hai ottenuto il Papato come una volpe, regnerai come un leone, morirai come un cane » Raggiunto dai soldati, questi lo rinchiusero nella rocca di Fumone, in Ciociaria, castello nei territori dei Caetani e di diretta proprietà del nuovo Papa; qui il vecchio Pietro morì il 19 maggio 1296, fortemente debilitato dalla deportazione e dalla successiva prigionia: la versione ufficiale sostiene che l'anziano uomo sia morto dopo aver recitato, stanchissimo, l'ultima messa. A proposito della morte si sparsero subito voci e accuse. Anche se la teoria secondo la quale Bonifacio ne avrebbe ordinato l'assassinio fosse priva di fondamento, di fatto il Papa ne ordinò la segregazione che, in qualche modo, lo portò a morte. Il cranio di Celestino presenta un "foro" che, secondo alcuni, potrebbe essere la conseguenza di un ascesso di sangue. Due perizie sulla salma datate 1313 e 1888 rilevarono la presenza di un foro corrispondente a quello producibile da un chiodo di dieci centimetri, Bonifacio portò il lutto per la morte del predecessore, caso unico tra i papi, celebrò una messa pubblica in suffragio per la sua anima e diede inizio, poco dopo, al processo di canonizzazione. Il 5 maggio 1313, fu canonizzato da papa Clemente V, a seguito di sollecitazione da parte del re di Francia Filippo il Bello e da forte acclamazione di popolo, accelerando moltissimo l'iter avviato da Bonifacio. Tuttavia Clemente V non lo canonizzò quale martire, come avrebbe voluto Filippo il Bello, ma come confessore. Fu sepolto nei pressi di Ferentino, nella chiesa di Sant'Antonio sita nell'abbazia celestina che dipendeva dalla casa madre di Santo Spirito del Morrone. Nel febbraio 1317,[26] le spoglie furono traslate a L'Aquila, nella basilica di Santa Maria di Collemaggio, dove era stato incoronato Papa. Sulla data e sulle modalità di traslazione delle spoglie vi sono tuttavia altre versioni. Il 18 aprile 1988 la salma di Celestino V fu rubata. Due giorni dopo, venne ritrovata nel cimitero di Cornelle e Roccapassa, frazioni del comune di Amatrice. Non si sono mai scoperti i mandanti o gli esecutori. A seguito del terremoto dell'Aquila del 2009, il crollo della volta della basilica ha provocato il seppellimento della teca con le spoglie, recuperate poi dai Vigili del Fuoco, dalla Protezione Civile e con la collaborazione della Guardia di Finanza.

sabato 18 maggio 2013

Vigilia di Pentecoste, alba Celestiniana

Sono ormai completi i cinquanta giorni della Pasqua. Anche oggi lo Spirito Santo, il dono del Risorto ci ha convocati in questa veglia di Pentecoste per fare di noi le pietre vive della Chiesa. Dalla diversità Egli sa trarre l’unità, dalle diverse lingue trae l’unico linguaggio della fede. Oggi celebriamo il frutto del Mistero pasquale: lo Spirito di Dio scende sugli apostoli e li manda ad annunciare il Vangelo a tutti i popoli, perché a tutti sia manifestata l’opera di Dio. Ora, attraverso l’aspersione con l’acqua battesimale, chiediamo al Padre di ravvivare in noi la grazia del Battesimo per mezzo del quale siamo stati immersi nella morte redentrice del suo Figlio per risorgere con lui alla vita nuova.

venerdì 17 maggio 2013

Il denaro

«Oggi l’essere umano è considerato egli stesso come un bene di consumo che si può usare e poi gettare. Questa deriva si riscontra a livello individuale e sociale; e viene favorita! La maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo continuano a vivere in una precarietà quotidiana con conseguenze funeste. Alcune patologie aumentano, con le loro conseguenze psicologiche; la paura e la disperazione prendono i cuori di numerose persone, anche nei Paesi cosiddetti ricchi; la gioia di vivere va diminuendo; l’indecenza e la violenza sono in aumento; la povertà diventa più evidente. Si deve lottare per vivere, e spesso per vivere in modo non dignitoso». Una delle cause di questa situazione, secondo Francesco, sta «nel rapporto che abbiamo con il denaro, nell’accettare il suo dominio su di noi e sulle nostre società. Così la crisi finanziaria che stiamo attraversando ci fa dimenticare la sua prima origine, situata in una profonda crisi antropologica. Nella negazione del primato dell’uomo! Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione dell’antico vitello d’oro ha trovato una nuova e spietata immagine nel feticismo del denaro e nella dittatura dell’economia senza volto né scopo realmente umano, le loro deformità e soprattutto la grave carenza della loro prospettiva antropologica, che riduce l’uomo a una sola delle sue esigenze: il consumo». E «peggio ancora», ha aggiunto, «oggi l’essere umano è considerato egli stesso come un bene di consumo che si può usare e poi gettare. Questa deriva si riscontra a livello individuale e sociale; e viene favorita! ..la solidarietà, che è il tesoro dei poveri, è spesso considerata controproducente, contraria alla razionalità finanziaria ed economica. Mentre il reddito di una minoranza cresce in maniera esponenziale, quello della maggioranza si indebolisce. Questo squilibrio deriva da ideologie che promuovono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria, negando così il diritto di controllo agli Stati pur incaricati di provvedere al bene comune.. instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone unilateralmente e senza rimedio possibile le sue leggi e le sue regole». A ciò si aggiungono «l’indebitamento e il credito» che allontanano i Paesi «dalla loro economia reale ed i cittadini dal loro potere d’acquisto reale. A ciò si aggiungono, oltretutto, una corruzione tentacolare e un’evasione fiscale egoista che hanno assunto dimensioni mondiali. La volontà di potenza e di possesso è diventata senza limiti». Dietro questo atteggiamento si nasconde, ha affermato il Papa, «il rifiuto dell’etica, il rifiuto di Dio». Un Dio che «è considerato da questi finanzieri, economisti e politici, come non gestibile, addirittura pericoloso perché chiama l’uomo alla sua piena realizzazione e all’indipendenza da ogni genere di schiavitù». Francesco ha incoraggiato «gli esperti di finanza e i governanti dei vostri Paesi a considerare le parole di san Giovanni Crisostomo: "Non condividere con i poveri i propri beni è derubarli e togliere loro la vita. Non sono i nostri beni che noi possediamo, ma i loro"». Infine, il Papa ha definito «auspicabile realizzare una riforma finanziaria che sia etica e che produca a sua volta una riforma economica salutare per tutti». Una riforma che «tuttavia richiederebbe un coraggioso cambiamento di atteggiamento dei dirigenti politici». «Il denaro - ha aggiunto - deve servire e non governare! Il Papa ama tutti, ricchi e poveri; ma il Papa ha il dovere, in nome di Cristo, di ricordare al ricco che deve aiutare il povero, rispettarlo, promuoverlo».

mercoledì 15 maggio 2013

Omaggio alla Sardegna

Al termine dell’udienza generale, il Papa ha rivolto un pensiero speciale ai Vescovi, ai sacerdoti e ai fedeli provenienti dalla Sardegna: “Voi sardi siete entusiasti, eh! Cari amici, vi ringrazio per la vostra presenza e di cuore affido voi e le vostre comunità alla materna intercessione della Vergine Santa che venerate con il titolo di ‘Madonna di Bonaria’. A questo proposito vi vorrei annunciare che desidero visitare il Santuario a Cagliari. Quasi sicuro sarà nel mese di settembre, perché fra la città di Buenos Aires e Cagliari c’è una fratellanza per una storia antica”.

martedì 14 maggio 2013

Donare apre il cuore

Abbiamo bisogno di un "cuore largo" che sia capace di amare. E’ quanto affermato, stamani, da papa Francesco nella Messa alla Casa Santa Marta. Il Papa ha messo in guardia dall’atteggiamento dell’egoismo che, come accade con Giuda, porta all’isolamento della propria coscienza e infine al tradimento di Gesù. Se vogliamo davvero seguire Gesù, dobbiamo vivere la vita come un dono da dare agli altri, non come un tesoro da conservare. Nessuno ha un amore più forte di questo: dare la sua vita. Ma la liturgia odierna ci mostra anche un’altra persona: Giuda, che aveva proprio l’atteggiamento contrario. E questo perché Giuda mai ha capito cosa sia un dono".

lunedì 13 maggio 2013

Non più sovrano

Papa Francesco fa togliere dall'annuario pontificio la qualifica di «sovrano dello Stato della Città del Vaticano» nella pagina che lo riguarda. Nella prima pagina, quella riguardante il «Vicario di Gesù Cristo», è riportato: Jorge Mario Bergoglio: «Successore del Principe degli Apostoli, Sommo Pontefice della Chiesa universale, Primate d'Italia, Arcivescovo e Metropolita della Provincia Romana, Servo dei Servi di Dio».

domenica 12 maggio 2013

San Pio V

Fu inaspettatamente eletto Papa grazie a un accordo tra i cardinali Borromeo e Farnese e consacrato il giorno del suo 62° compleanno, dieci giorni dopo. La sua elezione fece tremare la curia romana, niente festeggiamenti e sontuosi banchetti per solennizzare l'evento, infatti Pio V era di carattere rigido e intransigente. Cercò con ogni mezzo di migliorare i costumi della gente emettendo bolle, punendo l'accattonaggio, vietando il dissoluto carnevale, cacciando da Roma le prostitute, condannando i fornicatori e i profanatori dei giorni festivi. Per i bestemmiatori erano previste pene pecuniarie e corporali. Difese strenuamente il vincolo matrimoniale, infliggendo pene severe agli adulteri. Ridusse il costo della corte papale, impose l'obbligo di residenza dei vescovi ed asserì l'importanza del cerimoniale. Egli curò, inoltre, la pubblicazione del catechismo romano, del breviario romano riformato e del messale romano. Fu rigido oppositore del nepotismo. L'11 aprile 1567 concesse il titolo di dottore della Chiesa a san Tommaso d'Aquino. Preoccupato dall'avanzata turca, promosse una lega dei principi cristiani contro i Turchi e con Genova, Venezia e Spagna istituì la Lega Santa. Si narra che ebbe una visione in occasione della vittoria della battaglia di Lepanto ed esclamò «...sono le 12, suonate le campane, abbiamo vinto a Lepanto.» e da quel giorno le campane suonano ogni giorno alle 12. L'anno successivo, nel 1572, il 7 ottobre venne celebrato il primo anniversario della vittoria di Lepanto con l'istituzione della "Festa di Santa Maria della Vittoria", successivamente trasformata nella "Festa del SS. Rosario". Pio V, spossato da ipertrofia prostatica di cui, per pudicizia, non volle essere neanche visitato,[senza fonte] si spense la sera del 1º maggio 1572, all'età di 68 anni, dopo aver detto ai cardinali radunati attorno al suo letto: «Vi raccomando la santa Chiesa che ho tanto amato! Cercate di eleggermi un successore zelante, che cerchi soltanto la gloria del Signore, che non abbia altri interessi quaggiù che l'onore della Sede Apostolica e il bene della cristianità».

sabato 11 maggio 2013

San Silverio

Nato da Ormisda e da Caria da Capua e rimasto orfano di quest’ultima in giovane età, riceve dal padre un’educazione profondamente religiosa che lo porterà fino al soglio pontificio. Il padre e il figlio saranno entrambi Papa. L’8 Giugno del 536 Silverio venne eletto Papa ed il 20 giugno dello stesso anno fu proclamato vescovo di Roma. Il pontificato di Papa Silverio, purtroppo fu breve per la guerra tra Bizantini e Goti. Fu calunniato e deposto, morì in esilio di stenti a Palmarola ed è il patrono dell'isola di Ponza.

venerdì 10 maggio 2013

Amicizia e fratellanza con Chiesa copta d'Egitto, Bergoglio incontra Tawadros II patriarca di Alessandria e rimarca i legami che uniscono la sede di Pietro e quella di Marco

Papa Francesco ha ricevuto stamattina in udienza Tawadros II, capo della Chiesa ortodossa copta d’Egitto, papa di Alessandria e patriarca della sede di San Marco. L’evento ha fatto tornare alla memoria lo storico incontro, avvenuto quarant'anni fa tra Papa Paolo VI e Papa Shenouda III che diede il via al cammino ecumenico tra le due Chiese portando all’elaborazione di una Dichiarazione comune e alla creazione di una Commissione di dialogo teologico. Papa Bergoglio non ha mancato di rimarcare i legami di amicizia e rispetto che uniscono “la sede di Pietro e la sede di Marco” ricordando anche i “molteplici gesti di attenzione e di fraterna carità” che Tawadros II “ha riservato, sin dai primi giorni del suo ministero, alla Chiesa copta cattolica”, come pure l’istituzione di un “Consiglio nazionale delle Chiese cristiane che rappresenta un segno importante della volontà di tutti i credenti in Cristo di sviluppare nella vita quotidiana relazioni sempre più fraterne e di porsi a servizio dell’intera società egiziana, di cui sono parte integrante”. Ha poi ricordato le parole di San Paolo secondo le quali ogni uomo è parte del corpo mistico di Cristo evidenziando che esiste anche un “ecumenismo della sofferenza: come il sangue dei martiri è stato seme di forza e di fertilità per la Chiesa, così la condivisione delle sofferenze quotidiane può divenire strumento efficace di unità. E ciò è vero, in certo modo, anche nel quadro più ampio della società, dei rapporti tra cristiani e non cristiani: dalla comune sofferenza, possono infatti germogliare, con l’aiuto di Dio, perdono e riconciliazione”. Il patriarca copto riferendosi alla Città del Vaticano ha affermato che “pur essendo il più piccolo Stato al mondo sia per popolazione che per estensione, è altresì il più importante, grazie alla sua influenza e al suo santo servizio”. Inoltre ha auspicato che “questo possa essere solo il primo di una lunga serie di incontri di amore e di fratellanza tra le due grandi Chiese” proponendo che il 10 maggio di ogni anno si celebri la festa dell’amore fraterno tra la Chiesa cattolica e quella copta ortodossa. di don Aldo Buonaiuto (Comunità Papa Giovanni XXIII)

mercoledì 8 maggio 2013

Madri non zitelle..

Le indicazioni del Papa alle suore del mondo(800 delegate delle superiori religiose di 1900 tra ordini e congregazioni) «Non sarà così tra voi - il servizio dell’autorità, una castità feconda che genera figli spirituali, la consacrata è madre, deve essere madre e non zitella, scusatemi, parlo un po’ così..Siate madri come figure della chiesa madre, non si può capire Maria e la Chiesa senza la maternità, e voi siete icona di Maria e della Chiesa». «il danno che arrecano al popolo di Dio gli uomini e le donne di Chiesa che sono carrieristi e arrampicatori, che usano il popolo come trampolino per l’ambizione personale: fanno più danno alla Chiesa». «Cosa sarebbe la Chiesa senza di voi le mancherebbe affetto, maternità, tenerezza, intuizione di madre». «Care sorelle siate certe che vi seguo con affetto, io prego per voi, ma anche voi pregate per me».

lunedì 6 maggio 2013

Il sacco di Roma

La vicenda si inquadra nella più ampia cornice dei conflitti per la supremazia in Europa, tra gli Asburgo e i Valois, ovverosia tra Francesco I di Valois, Re di Francia e Carlo V d'Asburgo, Imperatore del Sacro Romano Impero nonché Re di Spagna. L'Imperatore tentò di riconquistare l'alleanza con il Pontefice, ma non avendo avuto successo, decise di intervenire militarmente, non di persona, ma scatenando contro lo stato pontificio la potente famiglia romana dei Colonna, da sempre nemica giurata della famiglia Medici di Clemente VII che chiamò in suo aiuto Francesco I. A questo punto l'Imperatore dispose l'intervento armato contro lo Stato Pontificio mediante l'invio di un contingente di lanzichenecchi che lasciarono Trento il 12 novembre 1526, riuscirono ad unirsi agli Spagnoli provenienti da Milano e attraversarono il Po. Pochi giorni prima, nella Battaglia di Governolo, venne ferito gravemente Giovanni dalle Bande Nere, il quale era l'unico capitano della lega anti-imperiale a contrastarne la discesa. Alle truppe imperiali si unirono, nel febbraio 1527, gli uomini comandati da Ferrante I Gonzaga, conte di Guastalla. Il Conestabile di Borbone partì da Arezzo il 20 aprile 1527, alla testa di 35.000 soldati spagnoli, tedeschi e italiani, approfittando delle precarie situazioni in cui si trovavano i veneziani ed i loro alleati a causa dell'insurrezione di Firenze contro i Medici. Le truppe a difesa di Roma erano poco numerose (non più di cinquemila), ma avevano dalla loro parte le solide mura e l'artiglieria, di cui gli assedianti erano sprovvisti. Borbone doveva prendere la città in fretta, per evitare di essere intrappolato a sua volta dall'esercito della Lega. Il 6 maggio gli Imperiali cominciarono l'attacco: il Borbone venne colpito a morte da Benvenuto Cellini o da qualcuno da lui comandato, ma questo fatto diede ancor più forza al suo esercito. Nonostante che il loro comandante Carlo III di Borbone fosse ferito (morì nel pomeriggio ricoverato nella chiesa di Sant'Onofrio) i lanzichenecchi perlustrarono le mura e riuscirono ad entrare attraverso una finestra malamente mimetizzata di una cantina del palazzo Armellini a ridosso delle mura. Da tale varco, passarono al palazzo della Rovere e si diressero verso San Pietro. Da lì, il Papa, che era in preghiera nella chiesa, fu condotto attraverso il passetto al Castel Sant'Angelo mentre 189 Guardie svizzere (anche esse mercenarie ma fedeli al papa) si fecero trucidare per difendere la sua fuga. Approfittando della pausa pranzo delle guardie agli spalti del castello, i lanzichenecchi non ebbero problemi, intorno a mezzogiorno, a superare il ponte sant'Angelo e ad invadere il resto della città. Privi di comando, partendo dal Borgo Vecchio e dall'Ospedale di Santo Spirito, la violenza da loro esercitata sugli abitanti della città fu inaudita e anche gratuita. Molti palazzi furono saccheggiati e incendiati e i loro proprietari (come gli esponenti della famiglia Massimo) trucidati. Papa Clemente VII si trovò rifugiato nell'imprendibile Castel Sant'Angelo. Il 5 giugno, dopo aver accettato il pagamento di una forte somma per il ritiro degli occupanti, si arrese e fu imprigionato in un palazzo del quartiere Prati in attesa che versasse il pattuito. La resa del Papa era però uno stratagemma per uscire da Castel Sant'Angelo e, grazie agli accordi segretamente presi, fuggire dalla città eterna alla prima occasione. Il 7 dicembre una trentina di cavalieri e un forte reparto di archibugieri agli ordini di Luigi Gonzaga "Rodomonte", assaltarono il palazzo liberando Clemente VII che venne travestito da ortolano per superare le mura della città e, poi, scortato a Orvieto. Avendo saccheggiato il saccheggiabile e perduta la possibilità di ottenere il riscatto, nonché decimati dalla peste e dalle diserzioni, gli Imperiali si ritirarono da Roma tra il 16 ed il 18 febbraio 1528. Il sacco causò danni incalcolabili sul patrimonio artistico della città. Anche i lavori nella fabbrica di san Pietro si interruppero e ripresero solo nel 1534 con il pontificato di Paolo III: « Tutte le cose sacre, i sacramenti e le reliquie de' santi, delle quali erano piene tutte le chiese, spogliate de' loro ornamenti, erano gittate per terra; aggiugnendovi la barbarie tedesca infiniti vilipendi. E quello che avanzò alla preda de' soldati (che furno le cose più vili) tolseno poi i villani de' Colonnesi, che venneno dentro. Pure il cardinale Colonna, che arrivò (credo) il dí seguente, salvò molte donne fuggite in casa sua. Ed era fama che, tra denari, oro, argento e gioie, fusse asceso il sacco a più di uno milione di ducati, ma che di taglie avessino cavata ancora quantità molto maggiore. » (Francesco Guicciardini, Storia d'Italia, 18,8) Oltre alla forte somma per il ritiro degli occupanti, il Papa a garanzia dovette consegnare come statichi Giovanni Maria del Monte, arcivescovo Sipontino; Onofrio Bartolini, arcivescovo di Pisa; Antonio Pucci, vescovo di Pistoia: Gian Matteo Giberti, vescovo di Verona. Al tempo del "Sacco", la città di Roma possedeva 50.000 residenti, prevalentemente composti da colonie provenienti da varie città italiane, a maggioranza fiorentina. Una tale esigua popolazione era difesa da un esercito raffazzonato di circa 4.000 uomini e dai 189 mercenari svizzeri che formavano la guardia del pontefice. Le secolari carenze manutentive all'antica rete fognaria avevano trasformato Roma in una città insalubre, infestata dalla malaria. L'improvviso affollamento causato dalle decine di migliaia di lanzichenecchi aggravò pesantemente la situazione igienica, favorendo oltre misura il diffondersi di malattie contagiose che decimarono tanto la popolazione, quanto gli occupanti. Alla fine di quell'anno tremendo, la cittadinanza di Roma fu ridotta quasi alla metà dalle circa 20.000 morti causate dalle violenze o dalle malattie. Tra le vittime si annoverano anche alti prelati, come il Cardinale Cristoforo Numai da Forlì, che morì pochi mesi dopo per le sofferenze patite durante il saccheggio. Le ragioni che indussero i mercenari germanici ad abbandonarsi ad un saccheggio così efferato e per così lungo tempo, cioè per circa un anno, risiedono, soprattutto, nell'acceso odio che la maggior parte di essi, luterani, nutrivano per la Chiesa Cattolica. Inoltre, a quei tempi i soldati venivano pagati ogni cinque giorni, cioè per "cinquine". Quando però il comandante delle truppe non disponeva di denaro sufficiente per la retribuzione delle soldatesche, autorizzava il cosiddetto "sacco" della città, che non durava, in genere, più di una giornata. Il tempo sufficiente, cioè, affinché la truppa si rifacesse della mancata retribuzione. Nel caso specifico, i lanzinchenecchi non solo erano rimasti senza paga, ma erano rimasti anche senza il comandante. Infatti il Frundsberg era rientrato precipitosamente in Germania per motivi di salute e il Borbone era rimasto vittima sul campo. Senza paga, senza comandante e senza ordini, in preda ad una avversione rabbiosa per il cattolicesimo, fu facile per la soldataglia abbandonarsi al saccheggio per un così lungo tempo. Tra i gravi danni si ricordano l'abbattimento del convento annesso alla basilica di Santa Maria del Popolo e della tomba di Vannozza Cattanei sempre nella Piazza.

sabato 4 maggio 2013

Rosario a Santa Maria Maggiore

non si cade nelle trappole..

Con il principe di questo mondo (il diavolo) non si può dialogare: e questo sia chiaro! Oggi il dialogo è necessario fra noi, è necessario per la pace. Il dialogo è un’abitudine, è proprio un atteggiamento che noi dobbiamo avere tra noi per sentirci, capirci … ma quello deve mantenere sempre. Il dialogo nasce dalla carità, dall’amore. Ma con quel principe non si può dialogare: soltanto rispondere con la Parola di Dio che ci difende, perché il mondo ci odia. E come ha fatto con Gesù, farà con noi. ‘Ma, guarda, fai questo, una piccola truffa … non c’è niente, è piccola …’, e incomincia a portarci su una strada un po’ non giusta. Questa è una pia bugia: ‘Fallo, fallo, fallo: non c’è problema’, e incomincia da poco, sempre, no? E: ‘Ma … tu sei bravo, tu sei bravo: puoi farlo’. E’ lusinghiero, e con le lusinghe ci ammorbidisce. Fa così. E poi, noi cadiamo nella trappola

Papa Martino V

Martino V fu il primo papa che poté occuparsi di un rilancio di Roma anche in termini monumentali e artistici. Nel 1423 venne indetto un giubileo per celebrare la rinascita cittadina. Il suo piano mirava a ridare quel lustro alla città che aveva anche una precisa finalità politica: recuperando lo splendore della Roma Imperiale egli si proclamava anche il suo continuatore e diretto erede. I primi cantieri a venire aperti riguardarono essenzialmente i due poli del Laterano (con gli affreschi - oggi perduti - nella basilica di San Giovanni dove tra il 1425 e il 1430 lavorarono Gentile da Fabriano e Pisanello) e del Vaticano, dove venne trasferita la residenza papale (pur trascorrendo gran parte della sua vita da Pontefice nel palazzo di famiglia ai Santi Apostoli che provvide a restaurare profondamente), iniziando la trasformazione della zona oltre il Tevere da area periferica a immenso cantiere. Nel frattempo la città aveva iniziato ad essere un polo di attrazione per artisti desiderosi di studiare e confrontarsi con la tradizione classica delle sue rovine. La più antica notizia di un viaggio compiuto da artisti stranieri per cercare e studiare le forme e le tecniche dell'arte romana antica è quella del 1402, quando vi si recarono i fiorentini Brunelleschi e Donatello, che tornarono più volte per trovare ispirazione per quello che fu il Rinascimento nell'arte[8]. Anche Pisanello e i suoi assistenti prendevano frequentemente ispirazioni dai resti antichi, ma il loro approccio era essenzialmente catalogante, interessato ad acquisire i più svariati modelli di repertorio da sfruttare poi in composizioni e accostamenti diversi, senza un interesse a comprendere l'essenza dell'arte antica. Il papa, che aveva soggiornato a Firenze, chiamò a partecipare al suo programma artisti fiorentini, quali Masaccio e Masolino, anche se l'apporto innovativo del primo venne stroncato dalla morte prematura. Nel 1443-1445 Leon Battista Alberti scrisse la Descriptio urbis Romae, dove proponeva un sistema per una sistemazione geometrica della città incentrata sul Campidoglio. In ogni caso non si può ancora parlare di una "scuola romana", poiché gli interventi degli artisti, quasi esclusivamente stranieri, erano ancora essenzialmente legati alle rispettive matrici culturali, senza elementi di contatto specifici o indirizzi comuni

venerdì 3 maggio 2013

Udienza congiunta Lazio e Roma

Le due squadre romane hanno ufficialmente inoltrato richiesta al Vaticano per essere ricevute dal Pontefice prima della Stracittadina di Coppa Italia ed il via libera è atteso a giorni, ma l'udienza sarà concessa ad un numero ridotto di persone. Sembra che ad incontrare papa Francesco, infatti, saranno i presidenti Lotito e Pallotta, gli allenatori Petkovic e Andreazzoli e i capitani Ledesma e Totti. Poi i giocatori delle due squadre faranno spot congiunti ed iniziative benefiche, dopo la partita ci sarà un «terzo tempo» per la squadra vincente, che consentirà alle due tifoserie di uscire in momenti diversi. La Tevere e la Nord saranno biancocelesti mentre Sud e Monte Mario andranno ai giallorossi, prezzi alti, ma sono attesi eventuali ridotti per i bambini e le famiglie.

giovedì 2 maggio 2013

The day two popes met in the Vatican

After a brief 15-minute helicopter ride, Benedict XVI landed at the Vatican City heliport at 16:50. The short journey from the papal summer residence in Castel Gandolfo took place as scheduled. A crowd of faithful gathered in St. Peter’s Square to watch the helicopter fly in. The Pope Emeritus was greeted by the Vatican Secretary of State, Cardinal Tarcisio Bertone, the Dean of the College of Cardinals, Cardinal Angelo Sodano and the President fo the Governorate, Giuseppe Bertello. The Substitute Secretary of State, Mgr. Angelo Becciu the Vatican “foreign affairs minister”, Mgr. Dominique Mamberti and the Secretary General of the Governorate, Mgr. Giuseppe Sciacca, were also present. Once off the helicopter, Benedict XVI was driven to his new home at the Mater Ecclesiae monastery, where Pope Francis was waiting, to give him his usual warm welcome. Vatican insider lastampa.it