lunedì 6 maggio 2013

Il sacco di Roma

La vicenda si inquadra nella più ampia cornice dei conflitti per la supremazia in Europa, tra gli Asburgo e i Valois, ovverosia tra Francesco I di Valois, Re di Francia e Carlo V d'Asburgo, Imperatore del Sacro Romano Impero nonché Re di Spagna. L'Imperatore tentò di riconquistare l'alleanza con il Pontefice, ma non avendo avuto successo, decise di intervenire militarmente, non di persona, ma scatenando contro lo stato pontificio la potente famiglia romana dei Colonna, da sempre nemica giurata della famiglia Medici di Clemente VII che chiamò in suo aiuto Francesco I. A questo punto l'Imperatore dispose l'intervento armato contro lo Stato Pontificio mediante l'invio di un contingente di lanzichenecchi che lasciarono Trento il 12 novembre 1526, riuscirono ad unirsi agli Spagnoli provenienti da Milano e attraversarono il Po. Pochi giorni prima, nella Battaglia di Governolo, venne ferito gravemente Giovanni dalle Bande Nere, il quale era l'unico capitano della lega anti-imperiale a contrastarne la discesa. Alle truppe imperiali si unirono, nel febbraio 1527, gli uomini comandati da Ferrante I Gonzaga, conte di Guastalla. Il Conestabile di Borbone partì da Arezzo il 20 aprile 1527, alla testa di 35.000 soldati spagnoli, tedeschi e italiani, approfittando delle precarie situazioni in cui si trovavano i veneziani ed i loro alleati a causa dell'insurrezione di Firenze contro i Medici. Le truppe a difesa di Roma erano poco numerose (non più di cinquemila), ma avevano dalla loro parte le solide mura e l'artiglieria, di cui gli assedianti erano sprovvisti. Borbone doveva prendere la città in fretta, per evitare di essere intrappolato a sua volta dall'esercito della Lega. Il 6 maggio gli Imperiali cominciarono l'attacco: il Borbone venne colpito a morte da Benvenuto Cellini o da qualcuno da lui comandato, ma questo fatto diede ancor più forza al suo esercito. Nonostante che il loro comandante Carlo III di Borbone fosse ferito (morì nel pomeriggio ricoverato nella chiesa di Sant'Onofrio) i lanzichenecchi perlustrarono le mura e riuscirono ad entrare attraverso una finestra malamente mimetizzata di una cantina del palazzo Armellini a ridosso delle mura. Da tale varco, passarono al palazzo della Rovere e si diressero verso San Pietro. Da lì, il Papa, che era in preghiera nella chiesa, fu condotto attraverso il passetto al Castel Sant'Angelo mentre 189 Guardie svizzere (anche esse mercenarie ma fedeli al papa) si fecero trucidare per difendere la sua fuga. Approfittando della pausa pranzo delle guardie agli spalti del castello, i lanzichenecchi non ebbero problemi, intorno a mezzogiorno, a superare il ponte sant'Angelo e ad invadere il resto della città. Privi di comando, partendo dal Borgo Vecchio e dall'Ospedale di Santo Spirito, la violenza da loro esercitata sugli abitanti della città fu inaudita e anche gratuita. Molti palazzi furono saccheggiati e incendiati e i loro proprietari (come gli esponenti della famiglia Massimo) trucidati. Papa Clemente VII si trovò rifugiato nell'imprendibile Castel Sant'Angelo. Il 5 giugno, dopo aver accettato il pagamento di una forte somma per il ritiro degli occupanti, si arrese e fu imprigionato in un palazzo del quartiere Prati in attesa che versasse il pattuito. La resa del Papa era però uno stratagemma per uscire da Castel Sant'Angelo e, grazie agli accordi segretamente presi, fuggire dalla città eterna alla prima occasione. Il 7 dicembre una trentina di cavalieri e un forte reparto di archibugieri agli ordini di Luigi Gonzaga "Rodomonte", assaltarono il palazzo liberando Clemente VII che venne travestito da ortolano per superare le mura della città e, poi, scortato a Orvieto. Avendo saccheggiato il saccheggiabile e perduta la possibilità di ottenere il riscatto, nonché decimati dalla peste e dalle diserzioni, gli Imperiali si ritirarono da Roma tra il 16 ed il 18 febbraio 1528. Il sacco causò danni incalcolabili sul patrimonio artistico della città. Anche i lavori nella fabbrica di san Pietro si interruppero e ripresero solo nel 1534 con il pontificato di Paolo III: « Tutte le cose sacre, i sacramenti e le reliquie de' santi, delle quali erano piene tutte le chiese, spogliate de' loro ornamenti, erano gittate per terra; aggiugnendovi la barbarie tedesca infiniti vilipendi. E quello che avanzò alla preda de' soldati (che furno le cose più vili) tolseno poi i villani de' Colonnesi, che venneno dentro. Pure il cardinale Colonna, che arrivò (credo) il dí seguente, salvò molte donne fuggite in casa sua. Ed era fama che, tra denari, oro, argento e gioie, fusse asceso il sacco a più di uno milione di ducati, ma che di taglie avessino cavata ancora quantità molto maggiore. » (Francesco Guicciardini, Storia d'Italia, 18,8) Oltre alla forte somma per il ritiro degli occupanti, il Papa a garanzia dovette consegnare come statichi Giovanni Maria del Monte, arcivescovo Sipontino; Onofrio Bartolini, arcivescovo di Pisa; Antonio Pucci, vescovo di Pistoia: Gian Matteo Giberti, vescovo di Verona. Al tempo del "Sacco", la città di Roma possedeva 50.000 residenti, prevalentemente composti da colonie provenienti da varie città italiane, a maggioranza fiorentina. Una tale esigua popolazione era difesa da un esercito raffazzonato di circa 4.000 uomini e dai 189 mercenari svizzeri che formavano la guardia del pontefice. Le secolari carenze manutentive all'antica rete fognaria avevano trasformato Roma in una città insalubre, infestata dalla malaria. L'improvviso affollamento causato dalle decine di migliaia di lanzichenecchi aggravò pesantemente la situazione igienica, favorendo oltre misura il diffondersi di malattie contagiose che decimarono tanto la popolazione, quanto gli occupanti. Alla fine di quell'anno tremendo, la cittadinanza di Roma fu ridotta quasi alla metà dalle circa 20.000 morti causate dalle violenze o dalle malattie. Tra le vittime si annoverano anche alti prelati, come il Cardinale Cristoforo Numai da Forlì, che morì pochi mesi dopo per le sofferenze patite durante il saccheggio. Le ragioni che indussero i mercenari germanici ad abbandonarsi ad un saccheggio così efferato e per così lungo tempo, cioè per circa un anno, risiedono, soprattutto, nell'acceso odio che la maggior parte di essi, luterani, nutrivano per la Chiesa Cattolica. Inoltre, a quei tempi i soldati venivano pagati ogni cinque giorni, cioè per "cinquine". Quando però il comandante delle truppe non disponeva di denaro sufficiente per la retribuzione delle soldatesche, autorizzava il cosiddetto "sacco" della città, che non durava, in genere, più di una giornata. Il tempo sufficiente, cioè, affinché la truppa si rifacesse della mancata retribuzione. Nel caso specifico, i lanzinchenecchi non solo erano rimasti senza paga, ma erano rimasti anche senza il comandante. Infatti il Frundsberg era rientrato precipitosamente in Germania per motivi di salute e il Borbone era rimasto vittima sul campo. Senza paga, senza comandante e senza ordini, in preda ad una avversione rabbiosa per il cattolicesimo, fu facile per la soldataglia abbandonarsi al saccheggio per un così lungo tempo. Tra i gravi danni si ricordano l'abbattimento del convento annesso alla basilica di Santa Maria del Popolo e della tomba di Vannozza Cattanei sempre nella Piazza.

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